Partirò dalla fine, come mi ha suggerito un’amica. E la fine non è “vissero tutti felici e contenti”,ma alcuni vissero, qualcuno no, tutti hanno imparato ad amare..
Imparare ad amare, forse questo potrebbe essere l’inizio: qualcuno che desidera imparare a farlo, che intuisce che l’amore non è legame di sangue, che è accoglienza, appartenenza, desiderio profondo di donare, ma anche pazienza, comprensione, silenzio, forza, capacità di riconoscere i propri limiti e di chiedere aiuto quando è necessario.
Un figlio non è mai come un genitore se lo aspetta, perché è altro, è qualcuno che possiamo solamente accompagnare nel cammino di crescita sapendo che poi dovrà andare, percorrere la sua strada anche quando questa si fa difficile e dolorosa, quando passa attraverso il bisogno di ritrovare le proprie radici, di scoprire il perché un giorno qualcuno lo ha abbandonato. Tutti i figli sono altro, non solamente quelli adottivi, e tante volte soffochiamo con le nostre pretese le identità altrui.
Noi figli adottivi abbiamo vissuto lo strappo e questa ferita profonda ci accompagna per tutta la vita ed è lenita solamente dalla tenerezza che riceviamo. E’ un marchio indelebile, un tatuaggio nel cuore che ci fa riconoscere gli uni con gli altri, sentire fratelli coloro che hanno vissuto la nostra esperienza, anche se incarnata in storie profondamente diverse.
E’ fonte di dolore ma anche di gioia, perché ci ha tolto, ma poi ha ridonato molto più di quanto ci aspettavamo. E buono è quel genitore che insegna il rispetto e l’amore per coloro che hanno donato la vita. Comunque.
Noi genitori adottivi sappiamo la pena di non poter cancellare quel passato talvolta così doloroso e triste, sappiamo di essere impotenti e senza risposte quando occhi che non abbiamo generato e mani che non abbiamo gestato si tendono con una muta domanda : perché?
Amare è costruire insieme, un presente che si fa futuro e colma i vuoti del passato, laddove è possibile.
Ho vissuto l’esperienza dell’adozione come figlia, sorella e madre. Ho provato il senso totale di non appartenenza ed ho scoperto che si appartiene a coloro che ci amano. La mia debolezza , non avere radici, è divenuta la mia forza perché le mie radici sono ancorate profondamente nel terreno della vita.
Il mio albero non ha dato frutti, ma sui miei rami hanno trovato il nido piccoli generati da altri .
Ci vuole forse una vita per imparare ad amare e non è certo che ci si riesca: non esistono ricette per essere buoni genitori né buoni figli e questo vale per tutti. Adottare un bambino non è un atto di bontà o di generosità e neppure serve a compensare alcun vuoto. E’ un atto di grandissima responsabilità e disponibilità a farsi carico di qualcosa di bellissimo e dolorosissimo insieme. Ed ha un senso profondo viverlo in una coppia perché ri-generare alla vita è cosa che non si può fare da soli, c’è bisogno di maternità e paternità.
Anna Bonalumi
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